Zingari è una favola visionaria dove la realtà e la fantasia si intrecciano. La storia è quella di un clan con le sue miserie, le sue contraddizioni e le sue violenze. Il protagonista è Gennarino, un emarginato che ama, riamato, Palomma, anche lei abbandonata e cresciuta nel gruppo di zingari. Poi c’è il cattivo, ‘O Diavulone che ha abusato della donna quando era una ragazzina e tiene tutti sotto il giogo della schiavitù:
innanzitutto la moglie, la Fattucchiara, e la figlia Marella, anch’ella segretamente innamorata di Gennarino.
Tra duelli fantastici, pozioni magiche e canti disperati, Gennarino verrà continuamente tradito dagli uomini e concupito dalle donne. Nel suo tentativo di riscatto ed emancipazione dalle logiche dettate dall’ignoranza e dall’’infima natura delle persone intorno a lui, resterà solo, creduto morto vittima della febbre. Solo il medico nella sua simbolica figura di sapiente tornerà in assenza di tutti a soccorrere il protagonista, che dando ancora flebili segni di vita, sarà portato all’ospedale a voler affermare che solo la conoscenza e il sapere possono dare lucidità e salvarci dalla deriva nefasta a cui l’’ignoranza ci destina.

Appunti per una visione - Note di regia

La didascalia iniziale descrive, “l’accampamento di alcuni zingari […] il quadro che si presenta è deformato come visione allucinata di incubo[…]un asinello scarno e mal nutrito bruca l’erba rada[…]si vedrà la tribù accolta nello spazio delle tende sudice e sdrucite”. Si sa che gli incubi in quanto sogni si esprimono attraverso un linguaggio comprensibile o non comprensibile per la persona che vive il sogno. E mentre l’immagine man mano si componeva nella mia mente ho incontrato durante lo studio il verso Dantesco “O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto ‘l velame de li versi strani…” ( Dante Inferno IX vv. 61-63) che mi ha aiutato a districare visivamente ciò che non riuscivo a mettere in parole, trovando per me quelle adeguate. E sotto questo “velame” che è elemento principale nella struttura delle tende che delimitano la compagine apolide si cela un insegnamento che in questo momento storico si fa ancora più forte e necessario. Vedere manifestarsi l’intolleranza, la prepotenza verso chi viene considerato debole e diverso da parte di chi geograficamente è stato più fortunato e crede che questa casualità autorizzi i comportamenti che violano le regole fondanti di aiuto tra gli esseri umani, ci fa capire con non poca vergogna che quegli zingari che suscitano disprezzo non siamo altro che noi.
E Viviani sembra racchiudere simbolicamente questo modo d’essere, tornando alla didascalia, raffigurandolo con l’asinello (rimando all’accezione scolastica dell’ignoranza) scarno e malnutrito, simbolo della nostra etica collettiva.

Arturo Scognamiglio